Allora, vediamo... cos’è il pop, per Marco Parente?
Più o meno tutta la musica moderna. Secondo me il termine non ha connotati negativi, perché sottintende una ricerca melodica o comunque uno stretto rapporto con la forma-canzone; mi ha sempre incuriosito e l'ho sempre cercato in qualsiasi cosa ascoltassi, pensa che anche quando ho vissuto un forte legame con il punk mi piacevano i gruppi più rock’n’roll e non quelli che puntavano ad estremizzare. La mia teoria è che il pop vada rigenerato e sviluppato con tutte le sintesi e le influenze possibili, e sono sempre stato affascinato dall’idea di riuscire a dilatare la formula canzone con l’innesto di elementi che per tradizione non le appartengono; dì creare, cioè, qualcosa di molto personale - ma non ostinatamente personale - anche "attaccando" i cliché convenzionali.
Prima parlavi di ascolti: cosa sentivi prima di dedlcarti alla musica attiva?
Ho iniziato nella prima metà degli ‘80 con l’hardcore-punk, anche se magari preferivo le band meno devastanti e quelle più bizzarre come, ad esempio, i Crass. Da lì mi sono spostato verso U2, Echo The Bunnymen, Bauhaus, il dark... chi più mi a spinto a suonare e mi ha influenzato a livello di attitudine è stato David Sylvian, che ho scoperto proprio nel momento cruciale della mia formazione, quello in cui si compiono le scelte determinanti; parlo, è ovvio, del Sylvian di Brilliant Trees, i Japan non mi dicevano granché.
E per quanto riguarda l’Italia?
Il rock dello stesso periodo; il provare a cantare rock nella nostra lingua mi sembrava una bella sfida. Poi ho maturato una immensa stima per Fabrizio De André e in particolare per Creuza de Mà, che a ben vedere non è un disco "in italiano" ma che ha avuto una fondamentale importanza per la nostra storia musicale mostrando come far convivere e azzardare splendidi contrasti.
I contrasti hanno un notevole peso anche nei tuoi brani; quando componi, le liriche nascono prima delle musiche, dopo o assieme?
I testi sono scritti a parte: sono una specie di appunti sparsi, anche se fin dall’inizio cerco di individuare una struttura, un ritornello o una strofa. Sostanzialmente la musica viene sviluppata in autonomia, e solo dopo aver realizzato qualcosa che mi piace sfoglio i miei quaderni per ricavarne spunti da adattare.
Vieni inquadrato nella corrente del "rock d’autore". I tuoi pezzi hanno pretese letterarie o poetiche?
No, direi proprio di no, almeno non in senso stretto: io cerco sempre di vivere il mezzo poetico in ottica di canzone, Credo che un testo di canzone, per quanto valido, abbia bisogno del supporto della musica, mentre la poesia necessita solo della carta o della recitazione in generale; sentir definire un testo come talmente bello da sembrare una poesìa mi dà fasttdio perché così facendo si attribuisce alla poesia una superiorità. È chiaro che il linguaggio dei miei testi non è casuale, ma estrapolarli dalle canzoni mi sembrerebbe una forzatura.
Nel contesto delle canzoni, però, non sono sempre facilmente comprensibili
Senza dubbio devo ancora imparare molto. In passato ho patito questo "problema", ma alla fine mi sono reso conto di non volerlo risolvere: non mi va, come fanno tanti altri cantautori, di "piegare" la musica alle parole, vorrei portare avanti parallelamente i due aspetti. In ogni caso, se anche quel che canto si capisce poco, vorrei almeno che si percepisse l’emozione della voce: per comunicare non servono per forza i singoli vocaboli, ma possono ugualmente servire l’intonazione o le suggestioni da essa evocate.
Il tuo è un mondo malinconico. Non dai l’aria, cioé, dl essere una persona molto felice.
Penso che molti di quelli che ostentano felicità non vogliano accettare realtà inconfutabili. Accanirmi su sentimenti "negativi" non significa automaticamente che io li subisca; ciò che conta è la consapevolezza, e non bisogna temere il fatto di essere composti per metà di merda e per metà di genialità: magari a me viene più da parlare della merda. e i miei discorsi assumono toni tipicamente europei... Quel che canto è visuuto al 100% sulla mia pelle, e dirlo serve ad affrontare la situazione. Affrontare, quindi, non subite.
Una sorta dl "partecipe esplorazione"?
Sì, senz’altro. Testa, dì cuore è un’ esplorazione del gesto descritto dal titolo: testa che dice cuore, nel senso che ci si deve imporre per agire in modo dignitoso verso se stessi e verso gli altri.
Il lato istintivo e viscerale deve prevalere su quello intellettuale?
Quasi tutti la leggono così, ma il significato è un altro. Ad agire è la testa e il cuore ha il privilegio di eseguire, ma il legame tra i due è pieno di intrecci: non metto semplicemente nel cuore la sede dei sentimenti e nella testa quella della ragione. L’asse pende dal lato. della testa: il gesto di compiere una buona azione - simboleggiata dal cuore - va espresso come imperativo proprio perchè l’uomo, per cultura o per DNA, non è naturalmente portato verso il bene.
Lo vedi che sei pessimista?
No, è solo realismo. L’amore e il bene, proprio perché non molto comuni, sono atti faticosi, che hanno bisogno di un training: in pratica te li devi quasi imporre. Alla base dell’album c’è un concetto importante, che fa parte del nostro quotidiano: io ho provato ad offrire alcuni miei punti di vista, ma è chiaro che l’argomento è pressoché inesauribile.
La realizzazione dei disco non deve essere stata semplice. Ci sono stati molti cambiamenti nel passaggio dalla teoria alla prassi?
Abbastanza, anche se non sul piano concettuale: il titolo e il 90% della scaletta erano decisi fin dall’inizio, così come il fatto che i brani dovessero essere undici con il "dì" come cesura. Ho incontrato alcuni ostacoli in fase di lavorazione, alle volte mi è capitato di non credere fino in fondo in ciò che stavo facendo. Inoltre, sul piano tecnico, mi sono trovato spesso a togliere invece che ad aggiungere, e infatti la prima parte è praticamente priva di ritmica. A ben vedere, anche la scelta dei pezzi mi ha dato qualche problema: i testi erano OK, ma non tutto tornava sotto il profilo emotivo; in chiusura ho dovuto aggiungere Rampe di slancio, una specie di dedica volta a suggerire distensione, perché mi sembrava che La guarigione non fosse in effetti tale, visto che lasciava molto amaro in bocca.
Eppur non basta uscì nell’ambito dl una collana particolare come I "Taccuini" del Consorzio, ma li tuo progetto ha subito dimostrato dl avere un respiro più ampio. Fino a che punto condivldevl la filosofia dei "Taccuini"?
Ad essere sincero avrei preferito un disco "normale", ma ho accettato la proposta perché si trattava comunque dì una buona opportunità promozionale, anche per via del prezzo ridotto. Però ero convinto che il mio lavoro non fosse inferiore ad altri cui il C.P.l. aveva dato una diversa patente di "ufficialità".
Quindi, quando hanno voluto ristamparlo al di fuori dei "Taccuini", hai provato una bella soddisfazione...
Sì, ho ritenuto che gli fosse stata resa giustizia, e soprattutto che fosse stata premiata la mia capacità di concepire un disco "completo" in ogni dettaglio, questioni grafiche comprese; i "Taccuini", forse, pagavano in qualche misura anche la loro omogeneità estetica, ma non è detto che, come normale album d’esordio, "Eppur non basta" sarebbe stato notato nello stesso modo. Alla fine, è andata benissimo così.
Cosa cerchi dalle persone che coinvoigi nelle tue canzoni? Mi vengono in mente i duettl con Carmen Consoli e Cristina Donà...
In generale sono molto propenso a concedere carta bianca: essendo interessato soprattutto al risultato finale, non ho difficoltà a sedermi sulla poltrona del regista. Magari è un’insicurezza dovuta al fatto che sono abituato a fare tutto da solo, ma di solito il lavoro dei miei "ospiti" mi piace più del mio; e poi è molto più stimolante "acquisire" le personalità altrui invece che annullarle imponendo loro qualcosa...
Dalla tua attuale posizione, come valuti il tuo passato dl batterista?
Senza dubbio ho ricavato molte utili esperienze sia dal sodalizio con Andrea Chimenti che dalla collaborazione con i C.S.I., ma non devi dimenticare che già con gli Otto P’Notri, fondati assieme all’amico Massimo Fantoni, componevo e mi occupavo dell’ organizzazione sonora. Non appena sono approdato a questo ruolo "cantautorale" ho capito subito che la strada "da gregario" che avevo imboccato prima non era quella giusta.
E in prospettiva, invece, come ti vedi nella giungla del panorama musicale italiano? La tua è ormai una carriera a tutti gli effetti.
Non so se Testa, dì cuore sia semplicemente una conferma o il disco che dovrebbe consegnarmi a un pubblico più ampio; la mia musica non è molto facile, questo è vero, ma credo che trovando la giusta chiave possa essere goduta senza difficoltà. Mi aspetto solo - o, meglio, spero - che, in questo mondo dove tutti si lamentano della banalità della maggior parte delle proposte, si noti almeno che il mio album è diverso da qualsiasi altro, e che sì premi il mio sforzo - peraltro compiuto con la massima naturalezza - di concepire qualcosa di nuovo nell’ ambito della canzone.
Quali pensi che siano il tuo miglior pregio e il tuo peggior difetto?
Parlo in maniera "ricurva", non riesco ancora ad essere "diretto" come vorrei. Come qualità, direi il mio amore per la musica, che mi spinge a realizzare qualcosa di molto forte e "sentito" indipendentemente dal prezzo da pagare.
Federico Guglielmi
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